Esiste un fenomeno globale che, dal 2007-2008, sta caratterizzando le nuove relazioni fra alcuni paesi centrali o emergenti – essenzialmente asiatici: Giappone, Cina e India – e una buona parte di quelli periferici, soprattutto africani. Tale fenomeno è l’aumento dei prezzi dei generi alimentari, che nel solo periodo 2006-2008 ha visto un incremento complessivo dell’83%, le cui ragioni sono ancora tutte da chiarire, ma che possono essere identificate in due grandi motivi: finanziari e legati all’economia reale.
Nel primo caso, si è assistito a una speculazione, determinata dalla struttura monopolista o oligopolista dei mercati soprattutto cerealicoli, in cui queste multinazionali (a differenza dei produttori locali) hanno incrementato in modo esponenziale i loro profitti, in ragione dell’aumento del fabbisogno (peraltro puntualmente soddisfatto); profitti poi ulteriormente ampliatisi grazie al fatto che le commodities sono diventate un bene-rifugio sicuro dinanzi alla crisi dei subprime iniziata negli USA e poi diffusasi in tutto il mondo, Europa compresa.
Nel caso dell’economia reale, due fattori possono avere contribuito all’aumento dei prezzi dei cereali: una crisi alimentare, che sarebbe meglio definire come maggiore necessità di alimenti, senza passare necessariamente per una scarsità di materia prima; e le politiche dell’Unione Europea, che nel 2009 si diressero verso coltivazioni di biocombustibili nei paesi periferici, al fine di garantire la percentuale (20%) di energia rinnovabile da essere usata per il settore dei trasporti entro il 2020.
Da queste circostanze – il cui epifenómeno è stato, appunto, l’aumento dei prezzi dei generi alimentari sui mercati mondiali – si è sviluppata una vera e propria corsa verso la terra, concentrata in alcuni paesi africani, in precedenza largamente al di fuori di tali dispute. La terra ha così riacquistato il suo antico valore, costituendo un bene-rifugio di lungo termine sia per le imprese multinazionali di maggiore entità così come per numerosi investitori istituzionali.
Tuttavia, al fine di portare a buon termine queste politiche di occupazione della terra e di trasformazione della stessa in monocultore destinate all’esportazione, soprattutto verso i mercati asiatici in espansione, c’era bisogno di conquistare l’accesso a questo prezioso bene. In un paese come il Mozambico, dove la terra è ancora di proprietà pubblica e dove lo Stato la concede in usufrutto, l’operazione doveva passare per forza da una strategia di alleanza col governo. E così è stato: il governo mozambicano ha spalancato le porte sia ai grandi (in potenza) progetti di biocombustibile, poi tutti abortiti a causa della retromarcia dell’Unione Europea su questo tipo di politiche, sia all’utilizzazione della terra da parte di grandi investitori stranieri.
Dati statistici dicono che il Mozambico è diventato il quinto paese al mondo in termini di concessione di terra in favore di investitori stranieri, con 99 progetti conclusi su un totale di 2,2 milioni de ettari, ¾ dei quali destinati alla silvicoltura.
Fra i progetti di investimento più significativi che il Mozambico sta affrontando in questo momento, il più importante è senza dubbio il “Pro Savana”. Risultato di una cooperazione triangolare Brasile-Giappone-Mozambico e figlio di un precedente programma implementato dalla cooperazione giapponese (JICA) nel sertão brasiliano sin dagli anni Settanta (denominato PRODECER), il Pro Savana – lanciato nel 2011 – prevede l’acquisizione, di fatto, da parte del programma (cioè del governo giapponese, finanziatore dell’operazione), di più di 10 milioni di ettari nel Nord del Mozambico, coinvolgendo circa 3 milioni di persone, in larga parte piccoli produttori locali, tre regioni (Nampula, Niassa, Zambezia) e 19 distretti.
Il Piano Direttivo (lo strumento operativo del Pro Savana) mira a incentivare i produttori locali, comprese le comunità che da secoli svolgono su quei terreni le loro attività agricole, a dismettere le coltivazioni tradizionali indispensabili per il proprio fabbisogno e per quello dei piccoli mercati vicini, per diventare salariati del programma, coltivando culture di esportazione, come la soia. Programmi simili nel Sud del paese stanno facendo la stessa cosa, ad esempio con la canna da zucchero.
Di fronte a questi fatti nuovi, alcune delle comunità contadine direttamente interessate a quest’opera di usurpazione delle terre hanno iniziato a organizzarsi, aiutate da una serie di associazioni nazionali, fondando il fronte del “No al Pro Savana”: si tratta di un fronte a cui partecipano organizzazioni come Justiça Ambiental, UNAC (Unione Nazionale dei Contadini), il Forum delle Donne Rurali, ADECRU (Azione Accademica per lo Sviluppo delle Comunità Rurali), coordinata da Jeremias Vunjane, che stanno riuscendo a bloccare o a ritardare il processo del Pro Savana. Un fronte che, col passare del tempo, si è fatto sempre più consapevole delle mete immediate (lo stop al Pro Savana), così come dell’ideologia di riferimento, basata su una resistenza al capitalismo monopolistico affamato di terre e di profitti e sulla costituzione di reti a livello nazionale e internazionale. ADECRU, per esempio, si è ormai affermata – nonostante le sue dimensioni ancora relativamente piccole – come l’organizzazione di riferimento per i movimenti rurali di resistenza in Mozambico, sollecitata da comunità contadine di tutte le province per formazioni, scambi di esperienze, suggerimenti su come non cedere alle pressioni governative e degli investitori esterni in merito al possesso (o all’usufrutto) della terra. Grazie a organizzazioni come queste, anche le comunità mozambicane si sono potute associare a reti come quelle della Via Campesina o ad altre ancora più specifiche, come l’alleanza dei popoli del Brasile, Mozambico e Giappone, per fare fronte comune contro i rispettivi governi al fine di fermare il programma Pro Savana.
Proprio di recente, una delegazione di contadini mozambicani e due rapprersentanti di ADECRU hanno partecipato, in Giappone, a un meeting di membri della società civile dei tre paesi, che ha portato a una dichiarazione (detta “Dichiarazione di Tokyo”), in cui si appella il governo giapponese a fermare il suddetto programma, ricordando anche che Tokyo si è astenuto, in sede di Assemblea delle Nazioni Unite, sulla Dichiarazione sui Diritti di Contadini e Contadine e Altre Persone che Lavorano nelle Aree Rurali.
Se qualcuno, insomma, riteneva che la lotta di classe – al di là di qualsiasi ideologismo – fosse oggi finita, quanto sta avvenendo in gran parte delle campagne africane dovrà farlo ricredere. Processi come quelli rapidamente descritti del Pro Savana hanno ormai chiarito a sufficienza quanto duro sia l’impegno di contadini, comunità rurali e attivisti, nella difesa dell’unico bene di cui dispongono, la terra, minacciato sia dai governi locali che dagli investitori esterni.
Tornare forse a pensare alle ingiustizie sociali in modo più globale potrebbe aiutare tutto il movimento della sinistra europea, o quel che di esso resta, a rimodulare il suo discorso politico verso fenomeni in larga parte dimenticati, ma che rappresentano (o dovrebbero rappresentare) il cuore dello scontro di classe oggi nel mondo e, quindi, l’interesse prioritario per le forze progressiste preoccupate di costruire relazioni più eque fra gli abitanti del paese.