Si dice che il Brasile sia il secondo paese al mondo, dopo la Nigeria, per popolazione nera. Circa la metà dei suoi più di 200 milioni di abitanti, infatti, si dichiara afrodiscendente…Questo, però, non ha affatto risolto situazioni di razzismo istituzionale e materiale che caratterizzano ancora il più grande paese dell’America Latina.
Lula ci aveva provato: leggi specifiche, ad esempio introducendo la storia dell’Africa all’interno dell’insegnamento della storia generale nelle scuole, l’istituzione della UNILAB, una università federale di integrazione internazionale della lusofonia afro-brasiliana con sedi a Bahia e Ceará, quote riservate per afrodiscendenti nei vari concorsi della pubblica amministrazione (politiche di affirmative action), il riscatto della memoria africana della nazione, estrinsecatasi in relazioni strategiche con molti dei paesi del continente africano. Certo, non tutto è andato per il verso giusto, soprattutto nella politica africana e africanista di Lula, con errori anche evidenti, come è successo in Angola per Odebrecht e in Mozambico per il programma ProSavana. O, in generale, per aver privilegiato il rapporto con paesi e capi di stato decisamente autoritari, come José Eduardo dos Santos in Angola, Guebuza in Mozambico, così come per il pressing fatto sul Portogallo per l’entrata nella CPLP della Guinea Equatoriale, col suo immarcescibile presidente, Teodoro Obiang, sul trono di questo piccolo paese africano di lingua spagnola dal 1979 e non esattamente un difensore dei diritti umani…
Nonostante questi e altri limiti, Lula aveva provato, in patria a ridurre il gap fra afrodiscendenti e popolazione bianca, e in politica estera cercando di costruire, passando anche per politiche multilaterali come quelle della CPLP, della ZOPACAS, del Mercosul e, in generale, dell’Atlantico Sud, legami reciprocamente vantaggiosi col continente africano. Il passaggio di Dilma Rousseff e, soprattutto, il suo impeachment che portò alla presidenza Temer e, poi, alle elezioni del 2019 con Bolsonaro, hanno fatto regredire ulteriormente la situazione. Oggi, i dati dell’Istituto Brasiliano di Geografia e Statistica parlano chiaro: in Brasile le mappe della povertà sono quasi perfettamente sovrapponibili con quelle razziali. Soltanto il 3% degli afrodiscendenti riesce a raggiungere posizioni di top-manager nel paese, mentre il 75% della popolazione con minori rendite è costituita dal gruppo degli afrodiscendenti. Il quasi 15% dell’intera popolazione che vive in situazione di povertà estrema è costituita per il 75% da afrodiscendenti. Negli ultimi otto anni, secondo un report sui diritti umani dell’Organizzazione degli Stati Americani, le persone che vivono per strada in Brasile sono aumentate del 300%, con una significativa accelerazione negli ultimi tempi. Dei quasi 110.000 individui senza tetto, circa il 70% si dichiara afrodiscendente. Fra di loro, la situazione più drammatica è quella delle neo-madri, le quali – appunto per mancanza di una abitazione dignitosa – di solito vengono precocemente separate dai loro neonati, restando così in condizione di povertà estrema e senza la loro prole.
All’esterno, però, del Brasile si continua ad avere un’immagine del tutto fuorviante, di samba e splendide donne che danzano per carnevale, e dei talenti della nazionale verde-oro alla ricerca dell’ennesima vittoria a un mondiale. Un’immagine che i media internazionali continuano a proiettare, anche grazie alle telenovelle brasiliane, che ormai hanno invaso quasi tutti i paesi africani, e gran parte di quelli europei, ma che di vero ha ben poco.
In tutti i livelli, infatti, istituzionali, sociali, lavorativi, le forme più regressive di razzismo sono all’ordine del giorno, ultimamente alimentate da un governo che, su questo fronte, non si è certo distinto per il suo impegno. La discriminazione tarda a essere sradicata dalla mentalità comune, mentre il razzismo materiale si traduce in conseguenze nefaste anche sul piano pratico, della salute delle persone. È stato così per il Covid-19, importato dall’Europa e dagli Stati Uniti da parte di chi poteva permettersi il lusso di viaggiare verso quei paesi, ma che ha penalizzato soprattutto gli afrodiscendenti che, in quanto poveri, non hanno potuto utilizzare le cliniche di lusso attrezzate per limitare i danni del virus, ricorrendo a una sempre più fatiscente sanità pubblica, senza medicinali né ossigeno sufficiente, soprattutto nel nord del paese (Amazzonia), dove si sono concentrate molte delle vittime del paese (a oggi, circa 670.000).
Lo stesso vale per i disastri ambientali. A fine anno, nello stato di Bahia, più di 100.000 persone sono rimaste senza abitazione, 26 sono state le vittime, a Rio de Janeiro 15 morti a inizio aprile, mentre, nei giorni scorsi, un po’ in tutto il nord-est del paese (una delle regioni più povere e a più alta incidenza di afrodiscendenti) lo scenario si è ripetuto, con dimensioni ancora maggiori. A farne le spese sono sempre – a parte sfortunati automobilisti o ciclisti che si trovano nel posto sbagliato al momento sbagliato – gli abitanti delle “comunità”, un’espressioje gentile per definire le favelas, abitate quasi esclusivamente da afrodiscendenti. A Pernambuco, specialmente nella grande Recife, il numero di morti va verso le 40 vittime in due giorni, con crolli di abitazioni precarie, costruite con materiale improvvisato e spesso alla confluenza di corsi d’acqua anche dalla notevole portata, come il Capibaribe, stile palafitte.
Nel caso di Recife e, in generale, di Pernambuco, i processi di espulsione dei lavoratori soprattutto afrodiscendenti dalle fabbriche che prima erano presenti nella capitale statale, destinate alla lavorazione della canna da zucchero, hanno infatti provocato un’enorme ondata di disoccupazione e l’impossibilità, per quei lavoratori, di permanere in residenze dignitose. Da qui, la costruzione di abitazioni precarie, appunto le favelas, che ormai caratterizzano un po’ tutte le città brasiliane, Recife compresa. La frenesia di costruire grandi condomini chiusi, grattacieli e centri commerciali giganteschi, tagliando aree verdi di notevolissima dimensione, senza alcun tipo di drenaggio ha fatto il resto, rendendo le città brasiliane estremamente precarie e pericolose.
Oggi, gli espulsi dai processi lavorativi e da abitazioni formali, insieme ai loro figli e nipoti, senza possibilità effettive di mobilità sociale, si sono trasformati in spacciatori di droga o in micro-criminali, oppure in riders delle varie compagnie presenti sul territorio, da Uber a Rappi, da I Food a In Driver, fino ai piccoli e grandi supermercati locali, che sempre necessitano di individui che, armati di buona volontà e di una bicicletta, portano il cibo e la spesa ai più fortunati, generalmente bianchi che vivono in condomini con piscina, palestra e campetto di calcetto annesso.
Sarà molto difficile, anche se Lula dovesse vincere le prossime elezioni, scalfire una struttura sociale tanto diseguale e tanto caratterizzata dal punto di vista razziale: quel che è certo, però, è che senza politiche sociali, inclusive e che attacchino queste sacche di povertà e di mancanza di opportunità la situazione continuerà a peggiorare, facendo precipitare altri milioni di brasiliani nella povertà più cupa, così come sono precipitate le vittime dalla recente alluvione, tracimate da fiumi e canali fognari a cielo aperto che non hanno lasciato loro scampo.