Esistono pochi paesi al mondo, oggi, in cui le possibilità di successo di lotte di movimenti sociali, soprattutto in ambito rurale, sono ridotte come in Mozambico. Parlo di paesi formalmente dmocratici, escludendo pertanto quelli apertamente autoritari, di cui anche in Africa continuano a esservi fulgidi esempi. Per questo motivo ho sempre pensato che le strenue lotte contro il maggiore programma di “sviluppo agricolo” del paese, il Pro-Savana, fosse un tentativo assai generoso, ma alla fine inutile. Così non è stato. Dopo 9 anni, il governo mozambicano, insieme alla JICA (l’agenzia di cooperazione giapponese) ha ufficialmente annunciato la fine del programma.
Solo per avere un’idea, il Pro-Savana fu lanciato in pompa magna nel 2011 da parte di tre soggetti: il governo del Mozambico, allora guidato dal presidente Guebuza, la JICA, come soggetto finanziatore, e l’ABC (Agenzia Brasiliana di Cooperazione), come soggetto tecnico attuatore. Il programma intendeva mettere a produzione circa di 11 milioni di ettari (la terra arabile, in Mozambico, è calcolata in circa 36 milioni di ettari), nella fascia conosciuta come “Corridoio di Nacala”, una lunga striscia di territorio che attraversa il paese da ovest a est, concentrata nella sua parte settentrionale. Cinque province (l’equivalente delle regioni italiane) coinvolte: Niassa, Tete, Nampula, Cabo Delgado, Zambezia, circa 5 milioni di piccoli produttori toccati, una durata prevista di 30 anni. E il sogno, da parte degli esecutori, di trasformare il Corridoio di Nacala in una monocoltura di esportazione, con rendimenti elevatissimi per i padroni del vapore, e con buona pace delle famiglie contadine ridotte a salariati e in costante deficit alimentare.
Ma ciò che, sin dall’inizio, aveva caratterizzato il programma Pro-Savana è stato il suo inserimento in uno scenario globale, di vendita di terra (o concessione, visto che, in Mozambico, la terra è ufficialmente un bene pubblico) per soddisfare le esigenze di paesi, soprattutto asiatici, con enorme fame di alimenti, soprattutto commodities come riso e soia, in seguito alla cosiddetta crisi alimentare del 2007-2008. Per questo anche gli attori del Pro-Savana sono stati, sin dall’inizio, di caratura internazionale. La JICA, infatti, snaturando la sua proverbiale tradizione di una cooperazione incentrata sull’aiuto umanitario, si è buttata a capifitto nella ricerca di programmi di “sviluppo”, in grado di portare alimenti in Asia a prezzo stracciato, coinvolgendo un paese come il Brasile di Lula e di Dilma, con cui negli anni Settanta vi era stata una esperienza simile, nella regione del Cerrado, in particolare nello Stato del Mato Grosso (programma Prodecer), e con la compiacenza del Mozambico. Un paese, quello mozambicano, niente affatto vittima, come in molti casi la letteratura ama rappresentare, così come è solita fare rispetto a molti altri stati africani, ma consapevole attore che ha concordato passo per passo tutte le fasi del Pro-Savana con Giappone e Brasile, a scapito dei piccoli produttori locali e delle rispettive comunità coinvolte. Inoltre, in anni più recenti, il Brasile, specialmente a partire dal governo-Temer e, oggi, con Bolsonaro, si è distinto per la produzione in massa di soia, da esportare soprattutto verso la Cina, con buona pace della retorica anti-Pechino dell’attuale presidente carioca.
Il Pro-Savana è stato fermato grazie a varie ragioni: uno scenario politico internazionale in parte mutato, ma anche motivi interni, da ricercare in un conflitto sociale esteso e sempre più consapevole che, grazie a organizzazioni come Adecru, Justiça Ambiental, Unione Nazionale dei Contadini, alcune parti della chiesa cattolica locale e parecchie altre associazioni, ha di fatto indotto i protagonisti di questo gigantesco programma a fermare il motore. Un elemento di grande rilievo, che è stato un prodotto involontario del Pro-Savana, è aver contribuito a rafforzare reti internazionali Africa-America Latina-Asia di popoli e organizzazioni della società civile impegnati su questo caldo fronte della difesa della terra. La Via Campesina, per esempio, è diventato un soggetto fondamentale in Mozambico, con continui scambi di informazioni e di formazioni, il delinearsi di strategie comuni, nonché le costanti pressioni verso i rispettivi governi (compreso quello giapponese) per cessare il suddetto programma.
Il “battesimo di fuoco” (almeno per le organizzazioni mozambicane) rappresentato dal Pro-Savana ha quindi sortito effetti insperati, che vanno ben al di là dei confini mozambicani. Il segnale che emerge da questa vicenda è che può esservi un altro modo di pensare e di agire in termini globali, lontano sia dai sovranismi di autarchica memoria che dai processi di selvaggia apertura dei mercati a cui il capitalismo internazionale sta ormai mirando da tempo; e che i protagonisti di questa vittoria sono tutti membri attivi di una società civile sempre più lontana sia dagli Stati che dai partiti, anche quelli della sinistra tradizionale.