John Mugufuli, il presidente tanzaniano covid-negazionista, recentemente scomparso nel marzo scorso, era chiamato il “bulldozer”, un appellativo che si riferiva alla sua tenacia nel portare a fondo i progetti di cui era convinto. Fra i quali la lotta contro coloro che intendevano combattere il COVID, arrivando a espellere i rappresentanti dell’OMS in Tanzania, e i cosiddetti mega-progetti, una lunga sfilza di gigantesche opere infrastrutturali, una trentina in tutto, con l’obiettivo di portare alla completa modernizzazione del paese entro il 2025. Fra queste, il più grande stadio di calcio dell’intera Africa (a Dodoma, capitale dal 1996) e la seconda centrale idroelettrica del continente, nel sud del paese. E ancora una linea ferroviaria di 700 Km che collega Dar-es-Salaam a Dodoma, via Morogoro, l’espansione del porto di Dar-es-Salaam, con un escavo dei fondali che porterà la profondità delle acque portuali dell’ex-capitale da 8 a 15 metri, una centrale di gas naturale (Likong’O-Mchinga) da 30 miliardi di dollari, un nuovo aeroporto internazionale a Msalato, a 12 Km dalla capitale Dodoma, che potrà ospitare un milione di passeggeri all’anno.
Fra le mega-opere un posto particolare occupa la diga di Mwanga-Same-Korogwe. Programmata nel 2014 e inserita nel piano di sviluppo del governo tanzaniano, la diga avrebbe dovuto essere terminata nel 2017, favorendo la disponibilità di acqua potabile nella regione del Kilimanjaro, presso il bacino del fiume Pangani. La questione della carenza idrica della regione non è nuova: vari fattori hanno contribuito a determinare una situazione impensabile fino a pochi anni fa. In circa 40 anni, 13 milioni di ettari di foresta sono andati in fiamme ai piedi della più alta montagna africana, con una perdita di potenziale idrico sufficiente per il fabbisogno di un milione di abitanti. L’80% dei ghiacciai, dal 1990, è scomparso dal Kilimanjaro, acutizzando ulteriormente la disponibilità di riserve idriche. Il programma ambientale delle Nazioni Unite (UNEP) aveva raccomandato, nel 2016, il riforestamento del Kilimanjaro e la protezione e valorizzazione dell’ecosistema della montagna, sia per garantire una esistenza sostenibile alle comunità locali che per incentivare un flusso turistico che, prima della pandemia, assicurava più di 1/3 delle ricette finanziarie nazionali del settore.
La risposta del “bulldozer” (e dell’attuale presidentessa, Samia Suluhu, che lo ha sostituito dopo la morte) è stata la costruzione di un mega-impianto, una diga – la citata Mwanga-Same-Korogwe – da 300 miliardi di dollari che probabilmente aiuterà a risolvere la carenza di acqua potabile delle popolazioni locali nel breve termine, ma che, nel medio e lungo periodo, porterà a ulteriori sconquassi di tipo ambientale e in termini di impatto nella vita delle comunità locali. Oltretutto, la costruzione di questa immensa opera ha fatto registrare ritardi tali, da parte della società assegnataria, la M.A. Kharafi & Sons, da indurre il governo a ritirare la rispettiva licenza e affidarla ad altra compagnia, la Badr East Africa Entreprise. Importanti gruppi internazionali hanno partecipato al finanziamento, fra cui l’Arab Bank for Economic Development in Africa (Badea), la Kuwait Fund for Arab Economic Development (KFAED), l’Opep Fund for International Development (Fodi) e il Saudi Fund for Development (SFD), in un chiaro avvicinamento, da parte del governo tanzaniano, alla finanza dei ricchi stati islamici produttori di petrolio.
In una simile prospettiva, che unisce megalomania del defunto presidente con interessi del capitale arabo, l’idea di una riforestazione e un trattamento di tipo comunitario e inclusivo di tutta l’area adiacente al fiume Pangani ha fatto segnare il passo, preferendo, appunto, la costruzione di una mega-opera che ha già fatto discutere molto la peraltro niente affatto libera opinione pubblica tanzaniana.