Quando l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha votato la risoluzione per condannare l’invasione russa dell’Ucraina, il risultato è stato piuttosto scontato: 141 favorevoli, 5 contrari e 35 astenuti. Meno scontato, almeno agli occhi di osservatori poco attenti, è stato l’atteggiamento dei paesi africani, soprattutto alla luce della recente condanna, da parte dell’Unione Africana, dell’occupazione dell’Ucraina da parte della Russia.
Vale la pena iniziare proprio da qui, dall’Unione Africana: quando, il 24 febbraio scorso, questo organismo – il cui presidente, al momento, è il senegalese Macky Sall – ha condannato l’iniziativa di Mosca, il voto è stato piuttosto unanime. Se è vero che gli unici paesi che hanno esplicitamente condannato l’azione di Putin sono stati Ghana, Kenya e Gabon, e che gli unici che ne hanno dichiarato appoggio esplicito sono stati Sudan e Repubblica Centrafricana (a cui è possibile aggiungere il Mali), il comunicato dell’Unione Africana lascia poco spazio ai dubbi, al di là dei distinguo e degli equilibrismi presenti nel documento per enfatizzare la ricerca della pace, attenuando un po’ l’unilateralismo della condanna verso la Russia.
Uno scenario, questo, che si è in parte capovolto in sede di Nazioni Unite: qui, infatti, i voti africani contro la risoluzione sono stati soltanto uno (quello dell’Eritrea), ma ben 25 si sono astenuti (e 28 hanno votato a favore). Perfino il Senegal del presidente dell’Unione Africana si è astenuto. Una spaccatura, quindi, un po’ sorprendente, che può trovare, almeno per alcuni paesi, una spiegazione nel tenore del documento delle Nazioni Unite – assai più esplicito in termini di condanna dell’invasione russa in Ucraina rispetto a quello dell’Unione Africana -, ma che, in molti altri casi, ha radici più profonde. Una di queste è l’anti-americanismo, che si può leggere come anti-occidentalismo in senso più generale, da parte della maggioranza dei paesi africani. Al netto, naturalmente, di questioni economiche e geopolitiche che stanno risultando decisive per comprendere l’atteggiamento dei paesi africani verso il conflitto in corso.
È possibile affermare che l’atteggiamento dell’Africa, nel suo insieme, almeno dalla fine degli anni Ottanta è stato caratterizzato da una cospicua dose di ambiguità nei confronti dell’Occidente, e del suo paese-leader, gli Stati Uniti. Si tratta di un’ambiguità antica, iniziata dalla tratta degli schiavi, culminata col colonialismo soprattutto franco-britannico (ma anche belga, tedesco, italiano, spagnolo e portoghese) ed esplosa con le indipendenze africane.
L’inizio, a questo proposito, non fu esattamente immacolato: Patrice Lumumba, per esempio, uno dei principali leaders africani, fu spodestato e ucciso da un colpo di stato di cui oggi si sa con certezza che fu organizzato dalla CIA e dal governo belga, a causa delle sue posizioni vicine al socialismo africano e al panafricanismo. Al suo posto fu messo uno dei peggiori dittatori della storia africana, Mobutu, che restò al potere dal 1965 al 1997. Ancora oggi la Repubblica Democratica del Congo è uno dei paesi africani più instabili e pericolosi del continente. Altro caso di scuola è quello del Gabon: qui, Omar Bongo, eterno presidente del paese (dal 1967 al 2009, anno della sua morte), insieme all’attuale presidente, il figlio Ali Bongo, hanno da sempre coltivato eccellenti rapporti sia con la Francia che con gli Stati Uniti, nonostante che questo paese dell’Africa centro-occidentale sia classificato da Freedom House come “Not Free”, con un misero punteggio di 3/40 rispetto ai diritti politici. Il Gabon è uno dei pochi paesi africani ad avere appoggiato esplicitamente la risoluzione delle Nazioni Unite contro l’invasione russa in Ucraina. Infine, negli anni della guerra fredda, non va dimenticato il sostegno di Washington al Sudafrica dell’apartheid. Al di là del fatto in sé, occorre ricordare che il Sudafrica ha occupato la Namibia militarmente per molto tempo (fino al 1990, quando questo paese fu finalmente liberato), nonostante una risoluzione delle Nazioni Unite del 1969 che condannava l’azione di Pretoria, e che proprio il Sudafrica era protagonista – con l’aiuto americano – dei conflitti armati contro i governi angolani e mozambicani, fungendo da avamposto dell’Occidente in quella vasta regione del continente africano.
Una buona dose di anti-americanismo e anti-occidentalismo si sviluppò sin dai primi anni delle indipendenze africane, quindi. Tendenza che non si placò negli anni Ottanta e Novanta, quando quasi tutti i paesi africani dovettero aderire agli organismi finanziari controllati dagli Stati Uniti, come Fondo Monetario Internazionale e Banca Mondiale, al fine di salvare le loro economie, ormai al collasso. Un’adesione, questa, che coinvolse anche paesi di certo storicamente lontani dagli Stati Uniti, come tutti quelli lusofoni, Angola e Mozambico in primo luogo, aprendo una relazione di evidente ambiguità. Lo scambio aiuto economico (mediante gli ormai famigerati programmi di aggiustamento strutturale) – adesione ai principi democratici fu così consumato, con nessuna convinzione da parte delle classi dirigenti africane le quali, infatti, in molti casi, tentarono di mascherare il loro neo-occidentalismo con elezioni di facciata, puramente confermative, in cambio di fiumi di denaro da parte dell’Occidente. Fu così che, per esempio, gli Stati Uniti, sotto Clinton, riconobbero soltanto nel 1993 il governo angolano, o che esaltarono il Mozambico come modello di pacificazione dell’intero continente, giocando anch’essi su un’ambiguità che conveniva a tutti gli attori sulla scena, fingendo di non vedere…
Questo quadro, più o meno, si mantenne fino a una decina di anni fa: la penetrazione cinese ha costituito il primo colpo al monopolio occidentale, soprattutto francese e americano, in Africa; e, dal 2014-2015, ossia da quando la Russia è sotto sanzioni a causa della sua occupazione della Crimea, anche Mosca è rientrata prepotentemente nello scacchiere africano, da cui si ra praticamente ritirata dopo il collasso dell’URSS. La Russia non è un partner commerciale importante per la maggioranza dei paesi africani, bensì sta diventando un partner militare e industriale strategico. Dal punto di vista militare, Mosca fornisce all’Africa il 49% delle sue armi, interviene con società di mercenari controllate dal Cremlino, come la Wagner, in conflitti interni, garantisce formazione nel settore della difesa, compreso in quello delle tecnologie e dell’intelligence, contribuendo così al mantenimento di regimi instabili e anti-democratici, come nel Sudan o nella Repubblica Centrafricana, o nel Mali, dove l’anti-francesismo ha ormai spostato il paese verso un’alleanza strategica con Mosca. Ma la Russia sta penetrando anche in termini produttivi, cercando di espandere la sua industria siderurgica, con accordi come quello fatto con l’Egitto in cui, a Port Said, è stata istituita una zona industriale speciale russa, già completata al 20%. Iniziative simili sono in programma anche in Namibia e Mozambico.
Sembra, insomma, che l’ambiguità Africa-Occidente stia iniziando a chiarirsi: non nel senso che i paesi occidentali avrebbero voluto, ossia con una convinta adesione a una democrazia esportata e mai digerita, ma in quello di un avvicinamento di molti paesi africani alla Russia. Lo scioglimento di questa ambiguità – vale la pena ripeterlo – è dettato, oltre che dal nuovo ruolo di Mosca appena descritto, da un anti-occidentalismo di fondo da parte di molti paesi africani, e da una comune visione delle classi dirigenti africane con la Russia in termini di modello di governance. Un modello definibile come “autoritarismo democratico”, in cui esiste una costituzione che garantisce elezioni libere e una qualche forma di libertà di espressione e di stampa e di rispetto dei diritti umani, ma che, nella realtà, rappresenta un simulacro di democrazia, in cui i partiti al governo (e i loro leaders) non hanno alcuna possibilità di perdere le elezioni e, quindi, il potere, politico ed economico.
È in questa saldatura strategica, di lunga durata, fra la Russia e l’Africa che deve essere inquadrato il voto dei paesi africani alle Nazioni Unite, in un’epoca in cui non sarà più possibile, come è stato fino a oggi, che questi si dimenino diplomaticamente fra Cina, Russia e Occidente, con l’obiettivo di drernare risorse da tutti e tre i loro grandi donatori tradizionali. Se il momento della scelta sta arrivando, dettato dalla guerra in atto (non soltanto quella militare che, prima o poi, finirà, ma da quella politico-economica in corso ormai da tempo), è molto probabile che la maggioranza dei paesi africani si schieri con la Russia, alleata della Cina; una scelta che, questa volta, non dovrà più destare troppa sorpresa, come è accaduto per il recente voto africano presso le Nazioni Unite.