Indipendentemente dalle idee di ciascuno di noi sul COVID-19 (ultranegazionisti a parte), esiste un elemento che non si è compreso nell’affrontare il Coronavirus. Un elemento strutturale, che rimette ai meccanismi politici che hanno ormai da decenni portato a gravi squilibri mondiali, e che si sono aggravati con l’emergenza sanitaria derivante dalla nuova pandemia: la sua “democraticità”, ossia la sua equa capacità di diffusione.
I tentativi di riequilibrare tali meccanismi di sviluppo ineguale sono stati molti: da quelli di intellettuali marxisti e neo-marxisti come Samir Amin a quelli di politici socialdemocratici e keynesiani come Willy Brandt e il suo Rapporto Nord-Sud del 1980, a quelli di matrice più ambientalista come il Rapporto al Club di Roma del 1972 sui Limiti allo sviluppo, fino a teorie post-marxiste sulla decrescita serena elaborate da Serge Latouche. E molte altre.
Tali teorie partivano da un presupposto comune: che il pianeta era unico, e che quanto accadeva, in positivo o, soprattutto, in negativo in una certa area avrebbe avuto ripercussioni dirette anche in altre zone, Occidente compreso. Col tempo, e col naufragio dell’Africa, soprattutto durante gli anni Ottanta e, poi, negli anni Novanta, caratterizzati dalle politiche di aggiustamento strutturale, questo pensiero di un destino comune dell’umanità è venuto a mancare. Non che siano scomparsi movimenti e idee che ancora coltivano questa prospettiva, specialmente di tipo ambientalista; ma nelle agende politiche dei paesi “forti” si tratta di un punto di vista che può essere classificato come residuale, come i magri risultati del COP 26 hanno dimostrato. Addirittura, un filosofo ha scritto che il problema dell’Africa, oggi, non è più lo sfruttamento delle sue popolazioni (che, comunque, continua), bensì il suo abbandono. Attualmente, i processi di sfruttamento delle risorse del suolo e del sottosuolo da parte di soggetti esterni al continente, costantemente alleati a questo o quel potentato locale di turno, pretendono di ottenere un risultato: mandare via le popolazioni dai luoghi in cui estrarre gas, petrolio, diamanti, rubini, oro, o in cui piantare eucalipti, soia o altre commodities, destinate all’esportazione. L’abbandono, quindi, ancora prima dello sfruttamento.
È con questa logica che il mondo ha affrontato il Coronavirus. L’imperativo è stato rinchiudersi in barriere sempre più rigide, illudendosi di fermare il contagio fermando i voli o impedendo prima ai brasiliani e agli indiani, oggi ai paesi dell’Africa Australe di avere contatti diretti con l’Europa. Misure comprensibili, ma che denunciano una mentalità che non collima con la natura di questo virus: la sua democraticità. A differenza di altri, recenti virus, infatti, non esiste un’area del mondo in cui questa pandemia sia maggiormente concentrata. O, meglio, esiste (è l’Occidente), ma la logica del virus è la sua capacità di diffusione “democratica” ovunque. Come non lo è per la malaria, i cui 410.000 morti all’anno sono largamente concentrati in Africa, non lo è stato, per molti versi, per l’AIDS, in cui il 69% degli attuali infettati vive in Africa, l’ebola e altre malattie ormai relegate quasi esclusivamente all’emisfero sud, come colera, tifo e peste, quest’ultima presente soprattutto nella Repubblica Democratica del Congo e acora di più in Madagascar.
Col COVID-19 il quadro è completamente diverso. Vi è stato un primo periodo fatto di buone intenzioni: è stato messo in piedi un meccanismo internazionale, il COVAX, che avrebbe dovuto garantire una distribuzione tendenzialmente equa dei vaccini a livello planetario. Ma questo meccanismo, diretto dall’Organizzazione Mondiale della Salute, quindi dalle Nazioni Unite, è abortito ben presto, e oggi gli Stati Uniti hanno donato appena il 25% di quanto a suo tempo promesso, e l’Unione Europea il 19%. Risultato: le popolazioni africane non sono vaccinate. Soltanto cinque paesi, fra l’altro neanche i più popolosi del continente, ossia Seychelles, Mauritius, Marocco, Tunisia e Capo Verde raggiungeranno il 40% di vaccinati entro fine anno, ma la media continentale è del 6%. A fronte di questa carenza di vaccini, alcuni paesi sono ricorsi all’aiuto di stati non occidentali, soprattutto la Cina, che ha distribuito vaccini dalla debolissima efficacia, vanificando, in larga misura, le poche vaccinazioni fatte in Africa. Il paradosso si è poi raggiunto in paesi come il Congo (Kinshasa), in cui 1,3 milioni di dosi di vaccino arrivate mediante il meccanismo COVAX sono state restituite al mittente per mancanza di siringhe.
La scoperta della variante Omicron ha suscitato nuovi allarmi ma, dal punto di vista simbolico, ha rimesso le cose a posto, per così dire: è dall’Africa che viene il pericolo, come ha dimostrato il funzionario di ENI-Mozambico tornato in Italia con questa variante. Conclusione: chiudiamo i confini coi paesi dell’Africa Australe toccati da questa nuova variante, come abbiamo fatto per mesi con Brasile e India (anche rispetto ai cittadini italiani che si trovavano in quei paesi e che volevano rientrare in patria). Ancora una volta, non un sussulto politico, nessun impegno serio a espandere il piano di vaccinazione (magari con siringhe al seguitio!) in Africa, né da parte dell’UE, né da parte dell’Italia…Nessun pensiero strategico di un pianeta bene comune, in cui se un’area risulta particolarmente infettata, o teatro di una nuova variante, l’importante sarebbe vaccinare tutti al più presto, anche per gli interessi dell’Europa, e non chiudersi a riccio, illudendosi che la variante Omicron non arrivi. Le chiusure verso questo virus potranno attenuare situazioni contingenti, ma mai risolvere il problema alla radice. Questo virus è democratico, non è come la malaria o l’AIDS, relegati ormai quasi esclusivamente in Africa e di cui, egoisticamente, possiamo anche disinteressarci. Per questo occorrerebbe una risposta altrettanto “democratica” per sconfiggerlo, cosa che né l’UE, né il governo italiano sembrano in grado di fare.